5 maggio 2020

La L. 633/1941, al suo art. 20, asserisce l’inalienabilità del diritto dell’autore di rivendicare la paternità dell’opera, di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione della stessa, nonché di impedirne ogni danneggiamento.
Il fine ultimo di tale disposizione consta nell’evitare il pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’autore (in egual senso l’art. 2577 c.c.).
Il Tribunale di Milano nel 2005, caso Annigoni c. Collegio Ghisleri, ha chiarito che “configurano atti in violazione dei diritti morali dell’autore l’errata collocazione dell’opera d’arte, la persistente inerzia nell’effettuazione di un restauro […], nonché […] il caso di degrado dell’opera in conseguenza del trascorrere del tempo, considerato che il degrado stesso […] potrebbe causare una lesione dell’integrità dell’opera”, violando il sopraindicato art. 20.
Neppure il decesso dell’artista determina l’estinzione dei diritti morali sull’opera: questi possono essere rivendicati – senza limiti di tempo – dal coniuge e dai figli, dai genitori e dagli altri ascendenti diretti dell’autore, dai fratelli, dalle sorelle dell’artista nonché dai loro discendenti. Nella logica di protezione dei diritti morali sull’opera si inserisce altresì l’art. 24 della Legge sul diritto d’autore, il quale afferma che “il diritto di pubblicare le opere inedite spetta agli eredi dell’autore […], salvo che l’autore abbia espressamente vietato la pubblicazione o l’abbia affidata ad altri”.
È pacifico che qualora l’artista abbia fissato un termine per la pubblicazione delle sue opere inedite, queste non potranno essere diffuse prima della scadenza dello stesso.
Per contro, in assenza di indicazioni precise dell’autore, non sono rari i casi in cui i soggetti autorizzati a pubblicare l’inedito siano più di uno e abbiano posizioni discordanti in merito al tempo della pubblicazione; in tali casi, sarà l’autorità giudiziaria a decidere.
Nulla quaestio che l’artista, ancora nel dominio della sua opera d’arte, goda altresì del diritto intrasmissibile di disconoscerla, ovvero ritirarla dal commercio a condizione che “concorrano gravi ragioni morali” (cfr. artt. 142-143 della L. 633/1941), da intendersi come radicale cambiamento del pensiero politico, religioso, intellettuale, etico e personale dell’artista, che si estrinseca con la sua opera. Diversamente è ben difficile che la pretesa autoriale possa essere riconosciuta.
L’intendimento dell’artista di ritirare l’opera deve essere notificato prontamente alle persone alle quali siano stati in precedenza ceduti i diritti di utilizzazione economica, consistenti nel diritto di riprodurre, diffondere, eseguire, rappresentare o spacciare l’opera medesima.
Il Ministero per i beni e le attività culturali dovrà poi darne pubblica notizia.
I cessionari, entro il termine di un anno a decorrere dall’ultima data delle notifiche e dalle pubblicazioni, potranno ricorrere all’autorità giudiziaria per opporsi all’esercizio della pretesa autoriale e – in subordine – richiedere il risarcimento del danno (cfr. art. 2582 c.c.). 
Un artista che si è sempre distinto nelle aule dei Tribunali è certamente Giorgio De Chirico, eclettico e anticonformista, e non possiamo non citarlo in materia di diritti morali d’autore.
Il padre della Metafisica ha più volte intentato cause per opporsi ai falsari, ovvero per contrastare l’esposizione di sue opere giovanili, che, pur non essendo state disconosciute, erano orami percepite distanti dai suoi dogmi pittorici.
Una delle controversie più note si è conclusa avanti la Corte d’Appello di Venezia (cfr. Corte d’Appello di Venezia, sentenza del 25 marzo 1955, Ente autonomo “La Biennale” c. De Chirico), con una pronuncia che ha sancito il seguente principio: all’autore di un’opera non spetta il diritto esclusivo di esposizione a seguito dell’alienazione dell’opera medesima.
L’acquirente di un’opera d’arte, che non sia disconosciuta, può quindi esporla in mostre ed eventi senza il consenso dell’autore.
Nel caso di specie, il Maestro si era opposto all’esposizione di una sua opera giovanile presso La Biennale di Venezia in quanto ritenuta rappresentazione superata del suo linguaggio artistico.
In primo grado, l’autorità giudiziaria adita ha assecondato la volontà dell’artista, sul presupposto che la vendita di un’opera d’arte comporti solo il consenso alla forma di pubblicazione che si concretizza nell’alienazione, lasciando in capo all’artista tutte le altre forme di pubblicazione, quale quella in esame.
Successivamente, la Corte d’Appello di Venezia ha negato la pluralità di forme di pubblicazione e ha attribuito al proprietario del corpus mechanicum, e non all’artista, il diritto di diffusione dell’opera.
Ciò in quanto con la vendita l’opera esce dalla sfera della riservatezza ed entra in quella pubblica, divenendo contestualmente oggetto di diritto.
Sottolineo che nel caso di specie il celebre artista non aveva ripudiato l’opera ai sensi dell’art. 2582 c.c., bensì ne aveva semplicemente contestato l’esposizione asserendo la violazione dell’art. 20 della Legge sul diritto d’autore.
Anche l’artista Giovanni Stradone ha subito la stessa sorte, in due gradi di giudizio in cui le autorità competenti hanno avuto modo di ribadire come l’esposizione di opere autentiche non rispondenti alla maturità artistica dell’autore non comporti alcuna lesione all’identità creativa.
Il medesimo principio è stato affermato anche dal Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi su una questione insorta tra l’artista Mario Cerioli e l’acquirente di una sua opera (cfr. Tribunale di Roma, sezione IP, ordinanza del 5 luglio 2010, Cerioli c. Mirabili).
In sintesi, ogniqualvolta il diritto morale e il diritto patrimoniale sull’opera entrino in conflitto la prevalenza dell’uno rispetto all’altro va valutata caso per caso, alla stregua di un articolato bilanciamento tra interessi contrapposti.
 
 
Dott.ssa Maria Tremolada 
 
 
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