COMUNIONE E ABUSI DEL COMPROPRIETARIO

 

Si ha comunione allorché la proprietà ovvero altro diritto reale spetti in comune a più soggetti.

In relazione al riconoscimento o meno della facoltà di richiedere lo scioglimento della divisione si suole distinguere tra comunione c.d. ordinaria ove, come si dirà in seguito, detta facoltà è riconosciuta in capo ad ogni partecipante, e comunione c.d. forzosa, ove la suddetta facoltà è negata atteso che i beni cesserebbero di servire all’uso cui sono destinati.

In relazione alla fonte si distingue ulteriormente tra comunione volontaria, ove la costituzione si ha per effetto di una convenzione stipulata tra i vari partecipanti; legale, qualora la costituzione avvenga ex lege; e, infine, incidentale, allorché la comunione sorga per effetto di un atto indipendente dalla volontà dei compartecipi.

Ebbene, per quanto attiene alla comunione c.d. ordinaria, il legislatore ha dettato una disciplina dettagliata agli artt. 1100 e ss. c.c.

Ciascun comunista è proprietario (o titolare di altro diritto reale) su una quota ideale del bene in proporzione alla misura della sua partecipazione e ha il diritto di servirsi della cosa comune senza alterarne la destinazione e senza impedire agli altri compartecipi di farne parimenti uso.

Egli ha altresì il diritto di concorrere all'amministrazione della cosa, salva restando la facoltà di delegare l'amministrazione stessa a uno o più partecipanti o affidarla ad un amministratore scelto da questi.

Per quanto attiene agli atti di ordinaria amministrazione, il legislatore richiede la maggioranza dei partecipanti calcolata in relazione al valore delle quote di ciascuno.  

Diversamente, per gli atti di straordinaria amministrazione nonché per le innovazioni, la disciplina appare maggiormente stringente ritenendosi indispensabile che la decisione sia approvata dalla maggioranza che rappresenti almeno i due terzi del valore complessivo della cosa comune.  

Peraltro, oltre a prevedere un consenso più ampio, il legislatore ha provveduto a richiedere il rispetto di ulteriori limiti: invero, l’impugnazione della deliberazione relativa sarà esclusa solo allorché non vi sia stato pregiudizio per l’interesse di alcuno dei partecipanti e, per le innovazioni dirette al miglioramento della res, sempre che la deliberazione non abbia comportato una spesa eccessivamente gravosa.

Trattandosi di atti idonei ad incidere sul permanere del diritto di proprietà di ciascuno ovvero a determinare una compressione dello stesso, per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali di godimento sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore ai nove anni, il legislatore ha ritenuto invece necessario il consenso unanime dei partecipanti.

Qualora la maggioranza abusi dei suoi diritti, contravvenendo alla disciplina sin qui esposta, i singoli contitolari potranno impugnare la delibera ai sensi dell’art. 1109 c.c.

Infine, la legge prevede che ciascuno dei partecipanti possa sempre domandare lo scioglimento della comunione e quindi la divisione del bene, a meno che si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate.

Qualora vi sia accordo, la divisione potrà avvenire mediante la stipula di un contratto tra i contitolari.

In assenza di pattuizione, ciascuno dei partecipanti potrà rivolgersi al giudice per richiedere la divisione in via giudiziale.

Lo scioglimento non sarà tuttavia possibile qualora i contitolari abbiano pattuito di rimanere in comunione per un periodo determinato, in ogni caso non superiore a dieci anni.

Tanto premesso in ordine alla disciplina prevista dal legislatore, non resta che chiedersi quali siano le conseguenze nell’ipotesi – frequente nella pratica – in cui, in pendenza della comunione, uno dei comproprietari di un bene immobile ne faccia un utilizzo esclusivo in violazione del disposto di cui all’art. 1102 c.c. a norma del quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune senza tuttavia impedire agli altri di farne parimenti uso.

La Suprema Corte si è pronunciata in materia ritenendo che il comproprietario autore dell’abuso sia tenuto al pagamento di una indennità nei confronti degli altri comunisti a titolo di risarcimento del danno dai medesimi subito in ragione dell’esclusione dal godimento del bene.

In tal senso si è affermato che “sussiste la violazione dei criteri stabiliti dall'art. 1102 cod. civ. in ipotesi di occupazione dell'intero immobile ad opera del comproprietario e la sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all'altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conseguente diritto ad una corrispondente indennità” (Cass. civ. Sez. II, 30-03-2012, n. 5156 (rv. 621760).

Provato l’uso del bene in violazione del disposto di cui all’art. 1102 c.c., nessuna prova ulteriore deve ritenersi necessaria atteso che, secondo quanto ribadito dalla Suprema Corte, allorché sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva e in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri comproprietari, il danno deve ritenersi "in re ipso" (Cass. civ. Sez. II, 12-05-2010, n. 11486).

La Cassazione (sez. II, 05-09-2013, n. 20394) ha peraltro provveduto a specificare i criteri per la quantificazione dell’indennità, ritenendo che il comproprietario, il quale, durante il periodo di comunione, abbia goduto dell’intero bene in via esclusiva e  senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti.

Detti frutti – secondo la Suprema Corte –  si identificano nel corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri e, in mancanza di altri criteri di valutazione alternativi, possono essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile.

                       

- Dott.ssa Silvia Di Nunzio -

 

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